All’inizio sono arrivati i micro quotidiani gratuiti, quelli
distribuiti agli accessi delle stazioni, da sottoproletari in pettorina blu o
rossa, con il nome della testata stampigliato sopra. Poi sono arrivati gli
e-reader, i kindle neri e lucidi con uno schermo pallido e smunto come fossero
malati; infine i tablet, gli smartphone, gli i-phone.
Ieri, sulla metropolitana, in piedi accanto a me c’era una
ragazza. Non aveva nulla di particolare, se non due occhi azzurri di una
profondità stellare, di cometa; due occhi incastonati in un viso ossuto e
affatto bello, che potevano appartenere alle superfici gassose di Saturno, con
delle screziature più chiare, a raggiera intorno alla pupilla, come i ghiacci
di Urano o le macchie tempestose di Giove. Per il resto, la ragazza era magra e
slanciata, con i capelli neri raccolti a coda di cavallo, maglioncino bianco,
stivali, jeans e borsa nera. Forse solo il piumino blu, stretto alla vita, così
simile a quegli occhi siderali e lontanissimi, poteva offrire un tentativo di
cortocircuito in un’estetica che altrimenti non dava innesco alcuno
all’accensione del desiderio e della sensualità. Né bella ne brutta, questa
ragazza leggeva. Non un giornaletto, un e-reader, un kindle, un tablet, uno smarthphone,
un i-phone, un post di Facebook, un tweet, un sms, un whatsapp, un foto di Snaphchat
o Instagram, un video di MySpace o un messaggio di Viber, un link inviato su
Bebo o Netlog, oppure un’offerta su Badoo, Meetup o Linkedin, oppure una
proposta di incontro su Meetic. Questa ragazza leggeva un libro, di carta,
ingiallito dal tempo, un libro vero con il dorso delle pagine annerito al
centro dalle molte dita che lo avevano sfogliato. Non c’era nessuno intorno a
noi, seduto o in piedi, nel nostro vagone o in quello successivo per quanto si
potesse osservare, che stesse leggendo un libro. La maggior parte era china su
un apparato che riverberava luce dagli schermi sulle facce stanche. Leggeva “I
fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij. Appena si era sistemata appoggiandosi
alla paratia del vagone aveva aperto il libro con attenzione, sollevando con
cura la piega della pagina che teneva il segno e si era messa a leggere. Si
trattava di un’edizione economica di almeno una trentina di anni fa – mi era impossibile
scorgere l’editore e l’anno di pubblicazione – con i bordi della copertina
slabbrati e il dorso solcato dalle venature tipiche di un volume mille volte
aperto. A guardare fra le pagine aperte appariva, nonostante tutto, un’edizione
curata, stampata con caratteri eleganti, non troppo piccoli, con i numeri a
fondo pagina tondi e obliqui come non se ne vedono più. La ragazza leggeva in
modo così assorto da far intendere che nulla intorno a lei avrebbe potuto
distoglierla. Gli occhi stellari erano fissi sulla pagina, immobili, senza
batter ciglio, e solo il movimento delle pupille oscillanti in quel mare
azzurro ghiacciato faceva intuire che la ragazza proseguiva riga dopo riga,
vogliosa, fino a voltare rapidamente pagina. Quell’intensità dello sguardo
aveva qualche cosa di prodigioso, creava una forza attrattiva, una linea
precisa dalla pupilla alla parola, insensibile ai continui sobbalzi del
convoglio, alle occhiate, ai movimenti, al chiacchiericcio degli altri
passeggeri. C’erano solo il celeste freddissimo degli occhi e il libro. A guardare
la ragazza nel suo insieme, la posizione delle gambe, delle mani, il modo in
cui era appoggiata alla paratia, sfruttando l’angolo di questa con i
mancorrenti per ottenere maggiore stabilità, si capiva che tutto era
finalizzato a rendere fermo quel segmento di energia traente, che dal centro
della pupilla arrivava alla carta per bruciare una sillaba dopo l’altra.
Frugai nella borsa alla ricerca di qualche cosa da leggere
che assomigliasse il più possibile al libro che la giovane teneva in mano.
C’erano documenti, fogli sparsi, una rivista, l’immancabile telefono, ma nulla
che vagamente potesse ricreare qual cortocircuito occhio-parola che avevo
accanto. Mi innervosii, invidiai la ragazza e invidiai il libro divorato da
quegli occhi polari che sembravano leggere dai confini della galassia. Provai
rabbia. Mi sembrava quasi un oltraggio che non si accorgesse dell’insistenza
del mio sguardo, che non si avvedesse di ciò che le avveniva intorno, di quel
frenetico scambiarsi di messaggi, connettersi a server, a pagine di social
network scorrendole verso il basso nell’accumularsi dei post, di quel violetto
iridescente che emanavano decine di schermi. Mi misi in testa di disturbarla.
Tossii, artatamente, e in modo altrettanto falso provai a schiarirmi la gola.
Qualcuno si voltò mentre la ragazza rimase impassibile. Sfruttai l’ondeggiare
del treno per toccarle il gomito un paio di volte, chiedendole scusa. La
seconda volta lei bofonchiò uno scusa a mezza bocca, spostandosi quel tanto che
bastava per rendere un successivo contatto un evidente e ormai impossibile
approccio. Mi sarebbe bastato che nello scambiare quelle scuse lei avesse
sollevato gli occhi, e che i nostri due pianeti – i suoi occhi azzurri e
gassosi e i miei marroni e rocciosi – si fossero incontrati dagli estremi del
sistema solare. Mi sarebbe bastato che quella linea intensa e luminescente del
suo sguardo celeste si fosse posata un istante sul mio volto, per percepirne
l’effetto, cogliere l’energia, subirne il calore. Invece la ragazza non stacco
le pupille da Dostoevskij. Nell’esatto istante in cui si aprirono le porte
della sua fermata piegò l’angolo della pagina, chiuse il librò e uscì rapida com’era
entrata, senza guardarsi intorno. (Luca Benassi)