Poesie


Da L’Onore della polvere.

I

Le nostre città sono rovine
di epidemie passate e guerre ancora da combattere.
Al vento le ossa vuote soffiano come flauti
Stateci lontano, non siamo guerrieri
o buoni difensori e non cerchiamo gloria di lapidi.
Abbiamo perso idee nei campi
e fogli già scritti sulla scogliera al limitare del bosco.
Chiedete agli zingari
o ai pastori. Manchiamo di un petto
su cui attaccare la medaglia.

II

Non chiedete a noi
solo questo sappiamo: chi siamo e cosa vogliamo
per il resto ci sarà una ragione
un perché fondato su una norma
una legge certa da non interpretare.
Se le cose stanno così
è perché si saranno incontrati
avranno portato carte, grafici obiettivi
intorno a un tavolo, fino a sera
avranno chiuso l’accordo e firmato la tregua.
Ci saranno state tazze di the
certezze da dare, un aereo da prendere.
Se le cose sono andate così
ci sarà un motivo
vedrete: salterà fuori un libro
carta intestata che galleggia su un fiume giallo
una sentenza di tribunale, bibliografie.
E qualcuno avrà preso una decisione.

III

Certo conosco il sapore dell’ago che punge la vena
ogni due mesi offro a quel becco
cianotico il liquido pigro e
intenso che mi abita
come un fiume placido che scorre d’estate:
se volete un poeta sappiate che non amo i torrenti
né le piene che invadono il letto e lasciano
limo sulla carta.

IV

Siamo come barattoli pieni
di spezie nella cucina
con le tisane da scegliere con cura
siamo l’ortica, il tiglio e la melissa.
Ci vuole la pazienza vegetale
che riempie la fatica dei balconi
per essere vetro fine che ama
la polvere, l’odore indifferente
delle essenze.
Mettete in infusione le nostre viscere
bollite come pesci o patate
e poi colate il succo rosso
che si incrosta al fondo della tazza.

V

Non dite che non sapevate nulla
delle statistiche, delle polveri
stanche e le finestre aperte al temporale.
Non giustificatevi per i monitor
non dite di ignorare i documenti
di questi anni precari del tempo
che manca ogni giorno
e spreme e succhia, calcolato al netto
dei muri che non possiamo oltrepassare.
Non dite infine che serve una metafora
a spiegare il traffico, i cocci aguzzi sotto le ruote
e la notte guasta di amori infecondi.
E poi non accusate noi poeti
di non avervelo detto
e di non avervi ascoltato.

VI

Conosciamo il vento che riempie il cavo
nell’azzurro tra l’occhio e il corpo
nello spazio residuale che discende dai balconi.
Abbiamo un tempo limitato, strategie
segnate in cartografie opache su carta intestata.
Il corpo che entra nel corpo
ne esce umido e svuotato come si esce
dal sonno all’improvviso
o dal mare nell’età che precede la paura.
Sappiamo bene che il tempo è dato
una dimensione finita
senza vento, o mare, o cielo
dove il corpo si disfa ad ogni tramonto.

VII

Chi di noi porterà la fiaccola in cima
e da quella altezza guarderà i delta deserti
che conservano fatti elementari? Chi vedrà
le città, i viali annegati di pioggia
i cieli verticali? Nessuno
conosce gli esiti, gli accordi fatti
le convenzioni che reggono
le strutture complesse
e i frutti massacrati che paiono misere
grate sottili a reggere cattedrali scoperchiate.