domenica 23 novembre 2014

la ragazza della metro B - di Luca Benassi



 

 

All’inizio sono arrivati i micro quotidiani gratuiti, quelli distribuiti agli accessi delle stazioni, da sottoproletari in pettorina blu o rossa, con il nome della testata stampigliato sopra. Poi sono arrivati gli e-reader, i kindle neri e lucidi con uno schermo pallido e smunto come fossero malati; infine i tablet, gli smartphone, gli i-phone.

Ieri, sulla metropolitana, in piedi accanto a me c’era una ragazza. Non aveva nulla di particolare, se non due occhi azzurri di una profondità stellare, di cometa; due occhi incastonati in un viso ossuto e affatto bello, che potevano appartenere alle superfici gassose di Saturno, con delle screziature più chiare, a raggiera intorno alla pupilla, come i ghiacci di Urano o le macchie tempestose di Giove. Per il resto, la ragazza era magra e slanciata, con i capelli neri raccolti a coda di cavallo, maglioncino bianco, stivali, jeans e borsa nera. Forse solo il piumino blu, stretto alla vita, così simile a quegli occhi siderali e lontanissimi, poteva offrire un tentativo di cortocircuito in un’estetica che altrimenti non dava innesco alcuno all’accensione del desiderio e della sensualità. Né bella ne brutta, questa ragazza leggeva. Non un giornaletto, un e-reader, un kindle, un tablet, uno smarthphone, un i-phone, un post di Facebook, un tweet, un sms, un whatsapp, un foto di Snaphchat o Instagram, un video di MySpace o un messaggio di Viber, un link inviato su Bebo o Netlog, oppure un’offerta su Badoo, Meetup o Linkedin, oppure una proposta di incontro su Meetic. Questa ragazza leggeva un libro, di carta, ingiallito dal tempo, un libro vero con il dorso delle pagine annerito al centro dalle molte dita che lo avevano sfogliato. Non c’era nessuno intorno a noi, seduto o in piedi, nel nostro vagone o in quello successivo per quanto si potesse osservare, che stesse leggendo un libro. La maggior parte era china su un apparato che riverberava luce dagli schermi sulle facce stanche. Leggeva “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij. Appena si era sistemata appoggiandosi alla paratia del vagone aveva aperto il libro con attenzione, sollevando con cura la piega della pagina che teneva il segno e si era messa a leggere. Si trattava di un’edizione economica di almeno una trentina di anni fa – mi era impossibile scorgere l’editore e l’anno di pubblicazione – con i bordi della copertina slabbrati e il dorso solcato dalle venature tipiche di un volume mille volte aperto. A guardare fra le pagine aperte appariva, nonostante tutto, un’edizione curata, stampata con caratteri eleganti, non troppo piccoli, con i numeri a fondo pagina tondi e obliqui come non se ne vedono più. La ragazza leggeva in modo così assorto da far intendere che nulla intorno a lei avrebbe potuto distoglierla. Gli occhi stellari erano fissi sulla pagina, immobili, senza batter ciglio, e solo il movimento delle pupille oscillanti in quel mare azzurro ghiacciato faceva intuire che la ragazza proseguiva riga dopo riga, vogliosa, fino a voltare rapidamente pagina. Quell’intensità dello sguardo aveva qualche cosa di prodigioso, creava una forza attrattiva, una linea precisa dalla pupilla alla parola, insensibile ai continui sobbalzi del convoglio, alle occhiate, ai movimenti, al chiacchiericcio degli altri passeggeri. C’erano solo il celeste freddissimo degli occhi e il libro. A guardare la ragazza nel suo insieme, la posizione delle gambe, delle mani, il modo in cui era appoggiata alla paratia, sfruttando l’angolo di questa con i mancorrenti per ottenere maggiore stabilità, si capiva che tutto era finalizzato a rendere fermo quel segmento di energia traente, che dal centro della pupilla arrivava alla carta per bruciare una sillaba dopo l’altra.

Frugai nella borsa alla ricerca di qualche cosa da leggere che assomigliasse il più possibile al libro che la giovane teneva in mano. C’erano documenti, fogli sparsi, una rivista, l’immancabile telefono, ma nulla che vagamente potesse ricreare qual cortocircuito occhio-parola che avevo accanto. Mi innervosii, invidiai la ragazza e invidiai il libro divorato da quegli occhi polari che sembravano leggere dai confini della galassia. Provai rabbia. Mi sembrava quasi un oltraggio che non si accorgesse dell’insistenza del mio sguardo, che non si avvedesse di ciò che le avveniva intorno, di quel frenetico scambiarsi di messaggi, connettersi a server, a pagine di social network scorrendole verso il basso nell’accumularsi dei post, di quel violetto iridescente che emanavano decine di schermi. Mi misi in testa di disturbarla. Tossii, artatamente, e in modo altrettanto falso provai a schiarirmi la gola. Qualcuno si voltò mentre la ragazza rimase impassibile. Sfruttai l’ondeggiare del treno per toccarle il gomito un paio di volte, chiedendole scusa. La seconda volta lei bofonchiò uno scusa a mezza bocca, spostandosi quel tanto che bastava per rendere un successivo contatto un evidente e ormai impossibile approccio. Mi sarebbe bastato che nello scambiare quelle scuse lei avesse sollevato gli occhi, e che i nostri due pianeti – i suoi occhi azzurri e gassosi e i miei marroni e rocciosi – si fossero incontrati dagli estremi del sistema solare. Mi sarebbe bastato che quella linea intensa e luminescente del suo sguardo celeste si fosse posata un istante sul mio volto, per percepirne l’effetto, cogliere l’energia, subirne il calore. Invece la ragazza non stacco le pupille da Dostoevskij. Nell’esatto istante in cui si aprirono le porte della sua fermata piegò l’angolo della pagina, chiuse il librò e uscì rapida com’era entrata, senza guardarsi intorno. (Luca Benassi)

 

3 commenti:

Anonimo ha detto...

complimenti

paola pinna ha detto...

...ho bevuto la Sua scrittura.
Sono andata in giro con chi si attacca a un libro come al collo di una bottiglia... Che bella la sete di quella ragazza!

Rita ha detto...

che bello questo incontro!lo sfiorarsi di due pianeti, rimasti sconosciuti " i suoi occhi azzurri e gassosi e i miei marroni e rocciosi"....